30 marzo 2009

Rientro

Dopo lunga latitanza (la più lunga da quando ho iniziato a scrivere questo blog) sono tornata in rete e in patria.
Ho svuotato le valigie, quasi recuperato il jet lag (non ancora le ore di sonno perse), ripreso possesso della mia stanza, rivisto alcuni amici, ripreso a guardare la tv italiana (e quindi già incazzarmi o amareggiarmi)... ma prima che la nuova storia annebbi l'American way ho qualche post già pensato da scrivere che sarà immesso retrodatato.

22 marzo 2009

to be or not to be proud (2)

Dopo un intero percorso negli States non è più necessario tornare a descrivere le caratteristiche che ci differenziano dagli americani, se avete letto i post precedenti sapete bene cosa intendo, se avete altre o ulteriori idee mi piacerebbe saperle perché l'osservazione e la comparazione è diventato ormai il mio hobby preferito.

Stando qui ho cercato di non rappresentare la "classica italiana" in vacanza che più o meno consapevolmente sostiene il: "in Italia è sempre (o ultimamente "nonostante tutto") meglio..."

Anche se non lo sappiamo siamo un popolo di orgogliosi, l'orgoglio della bella italia e della sua grande cultura come mi hanno fatto notare V. e A. ridicolizzando la mia scoperta (cfr. to be or not to be proud 1).

Infatti, anche se noi italiani non facciamo altro che lamentarci (in casa e fuori), considerarci arretrati e facciamo ancora fatica a pronunciare la parola patria o peggio ad esibire la bandiera (anzi esponiamo quella altrui minacciando la fuga!), in realtà noi questo strano e maledetto paese lo amiamo.

A darne prova non è solo Lapo Elkan che ha fatto altri soldi con le sue felpe ITALIA o ancor peggio FIAT (dopo che l'abbiamo sostenuta per generazioni con le nostre tasse dovrebbero regalarci una cinquecento, non venderci la maglietta!), bensì scrittori e registi che ne analizzano la storia e molti cantautori.

Mi sono resa conto di quante canzoni siano state scritte sul bel paese da italiani solo stando qui. La nostalgia mi ha portato a scoprire cantanti e canzoni che da anni parlano dell'Italia, la criticano e in fondo la celebrano come forse non accade in nessun altro paese.

Così mentre pensiamo la fuga già progettiamo il ritorno.

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Tra gli esempi cantati che ho in mente ci sono i seguenti presi qua e là cercando di seguire un ordine. Ma altri se ne potrebbero trovare.
L'Italiano di Toto Cotugno (la preferita del mio coinquilino); Aida di Rino Gaetano; Viva l'Italia di Francesco De Gregori; Quarant'anni dei Modena City Ramblers; Por Italia di Davide Van De Sfroos; Bella Italia dei Tre allegri ragazzi morti; Buona notte all'Italia di Luciano Ligabue (sebbene sia un tentativo a mio parere molto malriuscito) e tra gli ultimi gli Afterhours che non solo hanno portato al festival di San Remo un testo su "Il paese reale" (che lascia perplessi al primo ascolto, ma mostra un certo valore poi), ma hanno pubbicato coinvolgendo molti nomi della scena indie un album che lo descrive.

20 marzo 2009

La "mia" testimonianza

Intanto in America non ne parlano. Però provano a raccogliere i cocci.

Parlare della crisi, in America, oggi è un vero e proprio tabù. Ho provato a discutere con loro, soprattutto con i giovani. E la reazione era sempre la stessa: risposte generiche, mezze frasi, scarsa voglia di parlarne.

In gennaio a New York faceva freddissimo: non c'erano ambulanti per le strade. Ora che il clima inizia a mitigarsi, non si vedono comunque molte bancarelle agli angoli delle vie, nemmeno nelle giornate più calde.
Una donna keniota espone della bigiotteria e spiega che parecchi venditori erano soliti ritrovarsi in quel punto, ma a poco a poco hanno lasciato, sono rimasti solo in due. - A causa della crisi la gente non acquista più, e così facendo - aggiunge - va sempre peggio -.
La società capitalistica statunitense, infatti, aveva abituato i propri cittadini ad uno shopping frequente, nonostante il paese ormai da anni non produca più nulla, ma si basi sull'importazione di prodotti.
Ora la crisi, provocata anche da questo sbilanciamento, inizia a modificare l'atteggiamento degli americani. La gente sta perdendo il lavoro, a tutti i livelli, quindi potere d'acquisto e molto altro: negli Stati Uniti aumenta considerevolmente il numero di persone che non ha l'assicurazione sanitaria per esempio e, da quando la bolla legata ai mutui è rovinosamente esplosa, la casa.
Tra i motivi della crisi partita dagli Stati Uniti vi è, infatti, proprio l'eccessiva flessibilità del mercato immobiliare. Le banche elargivano prestiti facilmente agli acquirenti anche con situazioni instabili o precarie. I tassi erano favorevoli perché gli operatori finanziari erano sicuri che i prezzi sarebbero andati aumentando e il guadagno sarebbe stato continuamente garantito.
Un amico che lavora per una società di investimento ha cercato di darmi una spiegazione semplice di quanto è accaduto.
Un ipotetico Sig. Doherty poteva, per esempio, decidere di acquistare una casa chiedendo un mutuo che gli veniva concesso al tasso X. Qualche giorno dopo lo stesso Sig. Doherty scopriva un'altra compagnia che gli avrebbe coperto interamente la spesa garantendogli un tasso più basso. La fiducia nel mercato garantiva al sig. Doherty di evadere il primo mutuo, contraendo un debito con il secondo investitore. Questi passaggi potevano continuare e andavano a gonfiare la cosiddetta bolla del mercato immobiliare, basata su mere speculazioni e non sul valore effettivo degli immobili.
L'estrema fiducia nel mercato consentiva, inoltre, alle banche di attuare manovre di securitization (cartolarizzazione). Iniziate nel 2000 queste manovre hanno permesso alle banche di concedere molti mutui (i cosiddetti mutui subprime) perché grazie alla cartolarizzazione potevano rivendere i mutui ad altre istituzioni finanziarie, le società veicolo, liberandosi dal rischio di non ricevere più rate. La società veicolo lucrava da questi passaggi emettendo delle obbligazioni legate ai mutui.
Quando il mercato ha iniziato a incrinarsi la realtà è venuta allo scoperto insieme a una crisi che ha portato gli operatori finanziari a correre ai ripari.
La flessibilità che domina in ambito lavorativo ha permesso ai datori di lavoro in difficoltà di lasciare a casa da un giorno all'altro i propri dipendenti. Questo atteggiamento, che continua, ha fatto scivolare vorticosamente la situazione sempre più in basso. Il tasso di disoccupazione ha ultimamente raggiunto l'8,1%, i disoccupati sono 12,5 milioni: almeno quattro di questi hanno perso il posto negli ultimi mesi. Si dice che saranno necessari almeno 2/3 anni per uscire dalla crisi.
Le banche che sono andate in bancarotta hanno licenziato in maniera selvaggia. Tuttavia gli americani non disperano: malgrado la paura sia tanta, riescono a contenerla dietro un ottimismo perlomeno di facciata.
Ho chiesto ad ex bancario di ventisette anni cosa farà ora che da qualche settimana ha perso il lavoro, se è preoccupato. Ha risposto che aveva un buon posto, qualcosa ha messo via. Sta cercando altro. Non è pessimista, ma non sorride. Almeno per ora può comunque continuare a pagarsi casa. Ora, infatti, nonostante gli affitti siano scesi di un buon 25%, molte persone sono costrette a cercare un alloggio più economico.
Anche lontano dalle grandi metropoli la crisi non manca di far parlare di sé e influire in modo diretto. Molte le università che hanno tagliato il personale gravando i docenti di ruolo con l'insegnamento di più classi per il prossimo anno. E d'altra parte chi ha un posto sicuro se lo tiene ben stretto e non si lamenta certo del maggiore carico di lavoro. Un professore mostra preoccupazione affermando che anche dove lavora, in una piccola università dell'Indiana, frequentata prevalentemente dalla middle e upper middle class, per l'anno prossimo si prevede un numero notevolmente inferiore di iscrizioni. Perciò la politica di risparmio del campus è già iniziata riducendo alcuni servizi offerti agli studenti. È appena stato comunicato, ad esempio, che il servizio gratuito di shuttle per il supermercato del lunedì e giovedì è stato ridotto ad una sola volta a settimana. Dice, inoltre, che molti saranno i lavoratori del settore automobilistico che perderanno il posto e quindi la possibilità di garantire ai propri figli l'istruzione universitaria. Frequentare il college è negli Stati Uniti un vero privilegio e se non si ha un reddito medio alto (o la fortuna di una borsa di studio) è impossibile pensare di accedervi.
Le uniche attività che non sono state danneggiate sono quelle che in tempi di crisi fanno consulenza e riescono a lucrare sui cattivi investimenti altrui.
Tuttavia gli americani non si lamentano: hanno la percezione che in Europa la situazione sia persino peggiore e ripongono una grande speranza nel nuovo presidente.


da L'Ordine (quotidiano del comasco), 18 marzo 2009


*L'articolo è mio: l'ho scritto su richiesta di un amico ed è stato pubblicato in toto. Ho cercato di raccogliere varie informazioni, ma le testimonianze dirette sono state difficili da reperire: perciò quelle righe (da me indicate in corsivo) in apertura rubate da un dialogo via facebook.
La sera dopo durante una cena con un paio di anziane coppie qualche aneddoto in realtà è uscito, ma la situazione generale è quella indicata.
Gli americani parlano di: sport, tempo, televisione... questo quello che più di uno studente ha risposto all'ovvia domanda "Ma se non parlate di politica (in senso lato)... di che parlate???"
Il titolo non l'ho scelto io invece, ma mi piace.

R.S.P.

Scorrendo gli ultimi post ne esce il ritratto di una situazione difficile e di una persona che chiede consigli, ma in fondo lo sa già: se ne andrà su quel volo del prossimo 25 marzo.
Eppure nelle ultime settimane ho trascorso dei momenti di gioia, affetto e gratitudine che mi porterò stretti per un bel po' e che mi faranno tessere tanti elogi agli americani.

Ammetto, come già accennato nel post sul Thanksgiving day, di sentirmi una persona fortunata, negli ultimi anni, nei viaggi fatti ed anche a casa (ma in Italia sono state attentamente scelte), sono attorniata da persone squisite da cui mi sento voluta bene.

L'ultima volta che l'ho vista, Deb mi ha definita "a sweetheart" e ha affermato che sicuramente molte persone hanno desiderato trascorrere del tempo con me, ma lei per prima è un cuore al quale è facile voler bene.


Ma anche altre sono state le persone che mi hanno dimostrato un affetto, spesso del tutto inaspettato e con una semplicità tutta americana.


Tra le RSP (really special persone: sigla da me coniata in questo istante): Katherine e suo fratello John. A New York, ad esempio, dove mi hanno ospitata, non solo John mi ha più volte pagato il pasto, ma, la sera prima della mia partenza, a fine cena (avevo cucinato, Kathrine apparecchiato e acquistato dei fiori) è entrato in sala con una torta per il mio compleanno passato da soli pochi giorni. Ho festeggiato 28 anni tra "quasi sconosciuti" tra i quali mi sentivo "a casa".

La settimana precedente, inoltre, gli auguri mi erano già stati preparati da Greg che, a mia insaputa, aveva cucinato una cena vegana completa regalandomi anche una borsa di canapa biologica in tinta con le scarpe da poco acquistate.

Ma la gentilezza che forse più mi ha sconcertato è stata quella di Ken, il ragazzo di origine sudamericana, che ci ha scorazzato in giro per Manhattan a gennaio e che, nonostante non fosse assolutamente benestante (parlando ci ha spiegato di non potersi ancora permettere l'assicurazione sanitaria), ci ha pagato il pranzo e i due biglietti per salire in cima al Rockfeller center per ammirare una New York quasi notturna. Non c'è stato verso di rifiutare: ho provato a sottrargli la debit card al momento del pagamento per allungare la mia, provocando un'occhiata che mi ha quasi spaventata. Ho lasciato che facesse.

Già ho raccontato di Joshua (l'ormai famoso "quasi pastore") che ha cucinato, mi ha portato a un matrimonio, prestato la coperta, Anthony e Denis che mi hanno fatto vivere almeno un concerto a Indy e quest'ultimo mi ha inoltre fatto un cd ad hoc di Ryan Adams oltre a offrirmi il caffè ogni qualvolta finissi nel suo bar.


Altre studentesse mi hanno invitato a cena nelle rispettive sorority e tre ieri durante la cena mi hanno fatto trovare un mazzo di fiori e un pacchetto: una loro foto incorniciata perché non le dimentichi.

Prima di partire (e ancora durante la mia permanenza) alcuni mi avevano messo in guardia sugli americani descritti come molto friendly, ma incapaci di stringere rapporti profondi.
Quanti italiani sono capaci di stringere rapporti intensi e autentici? Se ascolto i dialoghi volanti colgo spesso delusioni e tradimenti.

Perciò la differenza credo stia solo nel diverso approccio. Gli statunitensi sono semplici e affabili, talvolta con un apparente entusiasmo che può sconcertare. Gli italiani al contrario vanno più cauti, spesso appaiono chiusi e caratterizzati da un atteggiamento magari persino retrivo.

Ma americani, italiani, tedeschi svizzeri... people are people... and lovely people are everywhere (fucking bastards also, unfortunately).