20 marzo 2009

R.S.P.

Scorrendo gli ultimi post ne esce il ritratto di una situazione difficile e di una persona che chiede consigli, ma in fondo lo sa già: se ne andrà su quel volo del prossimo 25 marzo.
Eppure nelle ultime settimane ho trascorso dei momenti di gioia, affetto e gratitudine che mi porterò stretti per un bel po' e che mi faranno tessere tanti elogi agli americani.

Ammetto, come già accennato nel post sul Thanksgiving day, di sentirmi una persona fortunata, negli ultimi anni, nei viaggi fatti ed anche a casa (ma in Italia sono state attentamente scelte), sono attorniata da persone squisite da cui mi sento voluta bene.

L'ultima volta che l'ho vista, Deb mi ha definita "a sweetheart" e ha affermato che sicuramente molte persone hanno desiderato trascorrere del tempo con me, ma lei per prima è un cuore al quale è facile voler bene.


Ma anche altre sono state le persone che mi hanno dimostrato un affetto, spesso del tutto inaspettato e con una semplicità tutta americana.


Tra le RSP (really special persone: sigla da me coniata in questo istante): Katherine e suo fratello John. A New York, ad esempio, dove mi hanno ospitata, non solo John mi ha più volte pagato il pasto, ma, la sera prima della mia partenza, a fine cena (avevo cucinato, Kathrine apparecchiato e acquistato dei fiori) è entrato in sala con una torta per il mio compleanno passato da soli pochi giorni. Ho festeggiato 28 anni tra "quasi sconosciuti" tra i quali mi sentivo "a casa".

La settimana precedente, inoltre, gli auguri mi erano già stati preparati da Greg che, a mia insaputa, aveva cucinato una cena vegana completa regalandomi anche una borsa di canapa biologica in tinta con le scarpe da poco acquistate.

Ma la gentilezza che forse più mi ha sconcertato è stata quella di Ken, il ragazzo di origine sudamericana, che ci ha scorazzato in giro per Manhattan a gennaio e che, nonostante non fosse assolutamente benestante (parlando ci ha spiegato di non potersi ancora permettere l'assicurazione sanitaria), ci ha pagato il pranzo e i due biglietti per salire in cima al Rockfeller center per ammirare una New York quasi notturna. Non c'è stato verso di rifiutare: ho provato a sottrargli la debit card al momento del pagamento per allungare la mia, provocando un'occhiata che mi ha quasi spaventata. Ho lasciato che facesse.

Già ho raccontato di Joshua (l'ormai famoso "quasi pastore") che ha cucinato, mi ha portato a un matrimonio, prestato la coperta, Anthony e Denis che mi hanno fatto vivere almeno un concerto a Indy e quest'ultimo mi ha inoltre fatto un cd ad hoc di Ryan Adams oltre a offrirmi il caffè ogni qualvolta finissi nel suo bar.


Altre studentesse mi hanno invitato a cena nelle rispettive sorority e tre ieri durante la cena mi hanno fatto trovare un mazzo di fiori e un pacchetto: una loro foto incorniciata perché non le dimentichi.

Prima di partire (e ancora durante la mia permanenza) alcuni mi avevano messo in guardia sugli americani descritti come molto friendly, ma incapaci di stringere rapporti profondi.
Quanti italiani sono capaci di stringere rapporti intensi e autentici? Se ascolto i dialoghi volanti colgo spesso delusioni e tradimenti.

Perciò la differenza credo stia solo nel diverso approccio. Gli statunitensi sono semplici e affabili, talvolta con un apparente entusiasmo che può sconcertare. Gli italiani al contrario vanno più cauti, spesso appaiono chiusi e caratterizzati da un atteggiamento magari persino retrivo.

Ma americani, italiani, tedeschi svizzeri... people are people... and lovely people are everywhere (fucking bastards also, unfortunately).

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