26 novembre 2008

Ahead just of a fence (post lungo, lo so, ma urgeva)

Venerdì 21 novembre, ore 16.00


Ci troviamo davanti all'Union Building, l'edificio centrale del campus pronti a partire per la Georgia e partecipare alla School of American vigil protest. Nonostante l'università paghi viaggio, due notti d'albergo e una cena, siamo solo sette: compreso il professore, il suo compagno e una studentessa proveniente dall'Illinois University.
A sostenere la trasferta è un'associazione studentesca che si occupa di promuovere la pace. A giudicare dalla partecipazione non so quanto successo abbia e a me pare di avere l'ennesima conferma di un'espressione che mi rimbalza nella testa da un po' di settimane: here the students are fed.


Se penso alla fatica per trovare come andare a Genova nel 2001, ai soldi spesi per Firenze, Roma, Perugia-Assisi, Milano... l'unico viaggio gratuito, perché offertomi, è stato quello a Vicenza nel 2007 per dire no dal molin. E anche se in generale quelle giornate sono valse ben più delle non molte decine di euro sborsati, andarci ha significato innanzitutto organizzarsi, trovare il come, da dove, con chi.
Qui c'era già tutto, ma i ragazzi hanno un'infinita di attività offerte e tra meeting e papers sui quali vengono valutati un giorno sì e l'altro pure, diviene complicato trovare lo spazio per il pensiero. Un paio di volte ho incontrato delle persone che dicevano di non sapere cosa fare, ma erano rappresentanti dei cosiddetti couch potatoes, gli altri sono tutti sempre BUSY, la parola più usata, un'altra tra quelle che odio.
Chiudo la digressione universitaria che in realtà meriterebbe un post a sé stante e poi forse si tratta solo dell'american style che stride con la mia visione.


All'una di notte arriviamo a Columbus.


Sabato 22 novembre.
Lasciamo l'albergo, un Best western più che confortevole, in auto. La parcheggiamo dopo quindici minuti e ben 10 bucks in un posteggio semideserto vicino a dei capannoni. I soldi non sono miei, ma mi auguro comunque vadano a sostegno della protesta.
Questa si svolge in una strada chiusa al traffico che porta alla fatidica scuola, se pur molto prima dell'entrata che non si vede. Sfiliamo tra un paio di transenne, superiamo i cartelli, leggiamo i divieti. La polizia ci guarda impettita e sorniona.





È la giornata dei banchetti informativi. C'è pochissima gente. Il professore che ci ha accompagnato ne prepara uno: un'associazione universitaria, l'ennesima. L'ha chiamata canary (canarino) e si propone di accrescere la consapevolezza su quel che avviene in Sud America.
Adocchiò degli acquisti interessanti e la mattinata scorre mentre leggo le frasi sugli stickers e i pins: mai visti così tanti. Ne compro qualcuno sperando che pure quel poco denaro vada a sovvenzionare un qualsiasi movimento, ma non ne sono così certa. Anche qui vige la legge del mercato.
Tuttavia gli stand interessanti non mancano: sono un numero limitato, ma sufficiente a coprire lo spazio concesso. Nel mezzo alcune persone sdraiate ricordano le vittime dei militari statunitensi.

Suggerisco un caffè al banco del commercio equo e solidale. Un american coffee per due dollari e qualche prodotto appoggiato su un banchetto che non fa invidia nemmeno ai verdi di Como. La ragazza dietro il tavolo inizia a parlarci della provenienza del prodotto, di come sostiene le piccole cooperative e bla bla bla. Le vorrei dire che un'idea di cosa sia il fair trade già l'avrei, ma il compagno guatemalteco del docente mostra stupore ed io sorpresa dalla sua “primordiale” curiosità chiedo di acquistare la tisana di rooibos poggiata davanti a me. Mentre controllo gli ingredienti, contenta di averla finalmente trovata vengo informata che non è in vendita, solo per esposizione.
Primo attacco nostalgico: garabombo, encuentro, l'isola che c'è... homesick!
In fondo alla strada c'è un palco,una ragazza vestita in stile hip-hop spiega della grande esperienza provata l'anno precedente scavalcando la rete, the fence. Dice che se si presenteranno cinquanta persone a farlo con lei, ripeterà l'opera. L'invito non verrà accolto (per chi supera il limite ci sono mille dollari di multa o fino a sei mesi di reclusione). Poi dei gruppi si alternano davanti a persone che non ballano. Lo superiamo e ci troviamo presso il cancello ultimo.
Alcuni sono seduti, poggio il sedere per terra pure io.
Attraversiamo le due carreggiate. Presto il rumore di una musica ballabile mi porta sotto il palco. Con poche decine di persone mi muovo, finalmente.
In tutto il pomeriggio non ho sentito uno slogan, un coro, niente. Greg mi spiega che manca una leadership. Ammicco con un «because you're used to be fed». Penso agli altoparlanti in mano agli studenti che se lo contendono per urlarci dentro, agli striscioni, ai carri dei collettivi.
Secondo attacco nostalgico: hasta siempre, ...ora e sempre disobbedienti, bella ciao... homesick!
Ma mentre torniamo al banchetto del Canary, mi giunge alle orecchie un ritmo conosciuto, mi blocco, faccio il ritmo con la voce ed è quello giusto, stringo il braccio di Greg fermandolo. Continuo quel ritmo mentre il mio amico non capisce. È lei, è lei e ho ragione. Il ritornello di "Bella ciao" arriva forte e chiaro se pur storpiato da un forte accento americano. Marcia indietro correndo, saltellando, soprattutto cantando. Proud of being Italian, ma nessuno capisce e Greg mi segue nel delirio, ignaro dell'importanza. Sono quasi sotto il palco e se m'invitassero la canterei al microfono, se non altro per salvarla dal forte accento yankee e non limitarla al ritornello.
Più tardi con orgoglio spiegherò che «you have such a lack of slogans, songs that you have to import our song!» anche se il mio interlocutore non si merita di sentirsi rivolgere tali parole e per giorni ripete che a N.Y è, e sarebbe diverso.

La sera andiamo in un centro di congressi dove si tengono incontri vari e ancora della musica: campa cavallo che l'erba cresce. Mi spiace per loro.
Terzo attacco nostalgico: fa' la cosa giusta, gas, incontri vari pro pace nelle parrocchie e nelle circoscrizioni o sedi dei partiti... homesick!


Domenica 23 Novembre

Sin dalla sera prima mi hanno detto che vedrò più gente, è quello il giorno della SOA vigil.
Assisto ad una veglia che commemora le vittime delle torture, degli abusi di potere, dell'ingiustizia. La massa di gente è per fortuna veramente aumentata, ma sono un nulla se penso che la protesta ideata da Padre Roy Bourgeois (un prete cattolico che proprio in questi giorni rischia la scomunica per aver appoggiato l'ordinazione al sacerdozio di alcune donne) con la creazione del "School of the Americas watch", riguarda tutti gli Stati Uniti.
E se non bisogna dimenticare che fino a qualche anno fa essere di sinistra da queste parti equivaleva ad essere considerati comunisti, cioè il male estremo, guardando i veterani e gli hippies datati da cui sono attorniata mi chiedo dove siano i loro figli, i loro nipoti, qualcuno avranno pure cresciuto!
Seguo la folla che questa volta in coro ripete no mas, no more, we cry e presente per le vittime nominate, come ben riportato sul programma trovato sia in albergo sia in loco. A dirigere il traffico della folla alcuni attivisti con dei cappellini rossi. Anche questo con altri dettagli è riportato nel programma: -Processions Guides, wearing red caps, will help direct you-.
Americani: non ci si può far niente se non hanno tutto esplicitato pare siano fottuti. Sorrido.

We cry. Ammetto che in alcuni momenti sento anche empatia e l'atmosfera si fa commovente: intrisa di giusta tristezza.
*Nella foto seguente al centro: Father Roy Bourgeois




Mezzogiorno è l'orario scelto per ripartire, mentre attraversiamo il parcheggio cercando di capacitarci che è vero, dentro quella scuola sono stati addestrati degli assassini e solo ventimila persone si sono indignate seconda la stima riportata in giornata (8500 secondo la polizia) ci fermiamo davanti all'ennesimo paradosso, come in un film...
Mi sorge il dubbio se mi sia più facile reperire una beretta oppure una tisana al rooibos...

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